Alessandro Avenali

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Il kitsch a tutti i costi: vi racconto di Martin Parr.

Il kitsch nella fotografia di matrimonio: quando osare e quando evitare?

Dettagli poco eleganti, facce imbruttite, gesti sgarbati.
Istantanee che, anziché valorizzare il soggetto, lo ridicolizzano… a volte gratuitamente.

IRELAND. Galway. Galway Races. From ‘Luxury’. 1997.

C’è una “new school”, nella fotografia di matrimonio, che fa il verso a Martin Parr… senza, purtroppo, di Martin Parr aver capito nulla. Già, perché quando Parr viene etichettato come il “fotografo del kitsch”, se ne fa una lettura estremamente superficiale. Si prende lo stile (quando si riesce) e si lascia la sostanza: quella profonda indagine sulla società che soltanto il suo genio poteva mettere in atto e che pochi fortunati illuminati, all’epoca (parliamo degli anni ’80), hanno saputo valorizzare, addirittura ben fuori dal suo paese d’origine, determinandone il successo e una carriera strepitosa.
Chi può essere così sciocco da pensare che la carriera di uno dei più proliferi contribuenti (anche a livello economico) dell’agenzia Magnum sia stata determinata dal solo fatto di fotografare il kitsch? “Toc toc… Magnum? Fotogafo la gente brutta, posso entrare?”. Semplicemente assurdo.

ITALY. Pisa. The Leaning Tower of Pisa. From ‘Small World’. 1990.

L’universo di temi che nel corso della storia hanno attirato l’attenzione di Parr, a partire dal suo bianco e nero di Bad Weather, per finire con il food, passando attraverso la classe operaia, la classe media, il turismo e molto altro, è scaturito dalla voglia di curiosare, indagare il “non raccontato” della società di tutti i giorni, con tutti i suoi contrasti. “Sono andato a guardare dappertutto, dai parchi divertimento, ai supermercati, al cibo. Credo ci sia un’intera miniera di temi ancora tutti da esplorare”.

Martin Parr è un fotografo documentarista.

Il kitsch è soltanto una conseguenza accessoria, non sempre necessaria. Inevitabile, forse, quando si fa un lavoro di ricerca sui cliché, un’indagine sugli stereotipi, o ancora quando “il punto focale della mia ricerca resta sempre lo scarto fra la mitologia del luogo e la sua realtà”. Dice una parola magica: ricerca.

GB. England. New Brighton. From ‘The Last Resort’. 1983-85.

E’ evidente che ci sia dell’ironia nei suoi lavori, ma è (non soltanto) funzionale all’appetibilità dell’opera, è questione di opportunità di fruizione. L’ironia arriva subito, ma dietro c’è dell’altro. Allo stesso modo, l’ambivalenza dei suoi lavori tra documento e arte ne fa opere con un bacino di utenza molto ampio. La forza estetica, in grado di arredare una galleria d’arte, è un lasciapassare al contenuto, al documento, al racconto. C’è sempre questa molteplicità di livelli di lettura nelle sue foto, ed è questo che ne ha decretato il successo.

SPAIN. Benidorm. From ‘Common Sense’. 1997.

Spesso, purtroppo, si vedono tentativi di imitazione che prescindono dal contenuto, dal messaggio. Si spara un flash in faccia a una bruttura e questo basta per fare una foto “alla Martin Parr”. Non è così. Come quando si cerca di ritrarre il kitsch a tutti i costi. Si tratta solo di dettagli brutti senza sostanza, frequentemente privi anche di ironia. Scatti che nessuno vorrebbe nel proprio album di matrimonio e che, anzi, fanno pensare: “ma cos’ha in testa ‘sto fotografo? Bah i fotografi sono strani…” Questo perché manca il secondo livello di lettura (il contenuto, la denuncia), e spesso anche il primo (un’ironia marcata o un’estetica da galleria d’arte). Meglio evitare anche solo di proporle, certe fotografie.

ITALY. Rimini. Autoportrait. Foto Alfredo. 1999

Una deriva dissacratoria.

La sintesi di questo mio pensiero, critico nei confronti di questa deriva dissacratoria della fotografia di matrimonio è: va bene destrutturare, purché la cosa abbia un senso, una progettualità, che può essere anche interna alla singola fotografia. E’ un invito a riflettere sul perché si cerchino certi scatti, o sul perché si scelga di mostrarli: cosa vuoi dirmi con la foto di un invitato in atteggiamenti poco eleganti? Se non c’è la denuncia di qualcosa “dietro”, ovvero il secondo piano di lettura, l’estetica della foto o il comportamento del soggetto è forte a sufficienza da giustificarne l’esposizione? O è soltanto una foto poco elegante? Il rischio è proprio questo: banalizzare il lavoro di un grande fotografo, ridicolizzando il proprio.

Qualche giorno fa colloquiavo, non ricordo con chi, di questa deriva e della “moda” che si sta iniziando a tirare dietro: una schiera di imitatori senza un progetto. La divertente conclusione a cui siamo giunti è che, se da un lato l’imitazione del bello, quand’anche fallisca, può avvicinarsi al bello… l’imitazione del brutto, quando fallisce, è veramente brutta!

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