La post-produzione delle foto del Matrimonio - Parte 1
RAW, JPEG, alta risoluzione, bianco e nero, effetti vintage?
Tutto quello che dovete sapere sui file che vi vengono consegnati.
La post produzione (o post-produzione, col trattino), detta anche sviluppo delle immagini digitali, è un tema delicato nel nostro lavoro. Gli sposi, magari quelli più profani in merito alla fotografia (in particolare quella digitale), potrebbero trovarsi in situazioni tra il confuso, l’insoddisfatto e l’entusiasta, a seconda di come il fotografo andrà a sviluppare le foto che ha fatto, indipendentemente dalla bellezza degli scatti di partenza. Parliamo di post-produzione delle foto del matrimonio.
Se, da un lato, va infatti detto che la “post” è necessaria nella fotografia digitale quasi quanto fosse lo sviluppo in quella tradizionale a pellicola, bisogna stare attenti a non esagerare. Andiamo a vedere perché…
Il file di partenza: il formato “RAW”
E’ il formato grezzo delle informazioni catturate dalla macchina fotografica. Una marea di informazioni! Molte più di quelle contenute in un file Jpeg (JPG), che è definito un formato “chiuso”, perché non consente la stessa libertà di sviluppo data dalla grande quantità di informazioni contenute nel RAW. Un file RAW, di per sé, non è un’immagine, alla stregua di come un vecchio negativo non è una stampa e non può essere fruito senza possedere strumenti appositi. Il file RAW va necessariamente sviluppato (e trasformato in un’immagine fruibile… ad esempio un JPG o un TIFF). Aprire un file RAW richiede inoltre un apposito convertitore RAW. Il convertitore RAW interpreta i dati catturati dalla fotocamera e ci fornisce un’immagine iniziale che, secondo lui, è una buona rappresentazione visiva di quei dati. Ma si tratta di un’immagine molto grezza e basilare.
Se non si sviluppa adeguatamente il RAW, l’immagine di base può apparire opaca, sbiadita, dai colori spenti. Questo perché il convertitore ci mostrerà una versione della scena nella maniera più neutra possibile. In che “direzione” vogliamo sviluppare poi la nostra foto è un compito (e una decisione) che spetta soltanto a noi. E’ per questo che la post-produzione è necessaria!
Ci sono fotografi che, tuttavia, non scattano in RAW, ma direttamente in Jpeg: il JPG fornito dal convertitore della fotocamera. Un file già chiuso, normalmente di bell’aspetto, con buoni contrasti e colori se si è scattato a dovere. E’ una soluzione che può andar bene per chi ha fretta (il file non va sviluppato ad hoc) e per chi non ha troppe pretese di controllo nell’aspetto finale della foto o dell’intero reportage. In generale non ho molta stima di chi scatta direttamente in JPG, a meno che non sia un reporter o un fotografo sportivo che ha necessità di inviare in tempo reale le immagini all’agenzia di notizie (e che quindi non ha il tempo necessario per effettuare lo sviluppo del RAW).
Il file RAW inoltre attesta la “paternità” di una fotografia. Se si vuole dimostrare di essere l’autore originale di una foto, possedere il file RAW può aiutare molto, in quanto (salvo rari casi) soltanto chi ha scattato la foto può averlo. Perché? Perché tutte le immagini che vedete sul web, proprio perché le vedete, sono state già sviluppate, e quindi sono per lo più JPG o altri formati immagine (PNG, GIF, TIFF…), ma non RAW! Di conseguenza, se qualcuno ruba un’immagine dal web per riutilizzarla in modo disonesto, ruberà necessariamente un file sviluppato, ma mai un RAW.
Proprio per questo motivo, chiedere al fotografo di consegnarvi i file RAW difficilmente porterà a un esito positivo, più che altro per questioni legate a questa faccenda della paternità e al diritto d’autore. D’altro canto la maggior parte dei clienti non sa bene cosa farsene di un RAW (lo sviluppo è una faccenda delicata che richiede esperienza) e probabilmente incontrerebbe anche qualche difficoltà nel tentare di aprirlo e visualizzarlo. Addirittura, per sviluppare correttamente un RAW, dovreste possedere il profilo colore della macchina utilizzata dal fotografo. Non di una qualsiasi dello stesso modello, ma proprio della sua personale, perché ogni macchina è differente da un’altra! Non avendolo, il lavoro che ne verrà fuori, svolto anche da un qualsiasi altro professionista, non risulterà accurato. Lasciate stare…
Alta e bassa risoluzione
Ogni immagine è composta da svariati pixel (punti). E ogni pixel ha un colore. L’insieme dei vari pixel colorati forma l’immagine digitale. Finché si parla di file digitali, parlare di risoluzione è lievemente inappropriato. Sarebbe meglio dire, per quanto possa sembrare semplicistico, immagini grandi e immagini piccole, dove le immagini grandi sono fatte da tanti pixel e quelle piccole da pochi pixel. Questo perché il concetto di risoluzione è strettamente legato alla stampa e alla rappresentazione fisica di un immagine (quand’anche fosse su un monitor), e indica la quantità di pixel o punti (che si traduce in “dettagli“) presente in un determinato spazio, espresso in pollici o in centimetri. Disponendo di un’immagine grande, composta da tanti pixel, potremo stampare, ad esempio, un 20×30 cm con un ottimo dettaglio, oppure potremo stampare con un dettaglio accettabile su una superficie molto più grande. Per comodità e abitudine quindi si associa la parola risoluzione alle dimensioni, espresse in pixel, della foto.
Se cerchiamo di stampare in un formato grande un’immagine digitale piccola (o in bassa risoluzione), la vedremo con poco dettaglio, ci apparirà come sfocata e… brutta! Significa che serve un file più grande! Più dettaglio abbiamo, più grande possiamo stampare. Quindi… pretendete sempre le foto più grandi possibili o “nella risoluzione più elevata“.
Le foto in bassa risoluzione, cioè fatte da pochi pixel, possono andar bene (ancora per poco tempo a dire il vero) finché le si vede sul computer, sul cellulare, sulla TV di casa (a meno che non sia un 4K), e per tutte quelle situazioni in cui abbiamo necessità di un file leggero, ad esempio per fare una scrematura di quelle da scegliere fra le tante consegnate, per inviarle via email a qualche amico o per condividerle sui social network. Ma le foto “in bassa risoluzione” non sono adatte a essere stampate!
Gli effetti: vintage, seppia, lomo, desaturazioni, vignettature, HDR…
A volte ci vengono richieste delle post-produzioni che richiamino questo o quell’effetto. Quando non si tratta di bianco e nero, parliamo per lo più di quegli “effetti” legati a pellicole antiche, fotografia low cost, toni pastellosi che seguono una moda molto femminile e franco-britannica a basso contrasto, e chi più ne ha più ne metta. Non voglio essere marcatamente critico su questo tipo di gusto. Può piacere o non piacere. Normalmente in fotografia tutto ciò che si discosta visivamente dal realismo produce l’effetto della meraviglia, suscitando apprezzamenti. Soprattutto nella fotografia di pubblico dominio è, purtroppo, una verità indiscutibile. Vorrei però esprimere delle considerazioni di cui credo sia doveroso tener conto quando ci si accinge a fare questo tipo di richiesta al fotografo:
Una volta sviluppato il file, quello vi tenete!
Chiudere un file JPG è un’operazione irreversibile. Siete proprio sicuri di desiderarlo, magari anche stampato sul vostro album, con un effetto discretamente importante, se non invadente? Siete proprio sicuri che valga la pena dare tutto questo spazio alla moda del momento o a quello che può essere un esercizio divertente, magari più adatto alla condivisione sui social network?
Nel caso aveste proprio un debole per questi tipi di post-produzione, considerate l’ipotesi di farvi consegnare i file *anche* in una versione con una post neutra, che non risentirà del peso degli anni tra un po’ di tempo. Insomma, immaginate di rivedere le vostre foto tra 5, 10, 20, 30 anni… Una post invadente o comunque marcata è come un colore troppo acceso per la vostra macchina, il vostro abito, i vostri capelli. Prima o poi potrebbe annoiare e potreste pentirvi.Spesso una foto a cui vengono applicati molti effetti è una foto che ha poco da dire. Non è una regola, è ovvio, ma vedo molte fotografie che non raccontano nulla e puntano tanto su quest’estetica french/british dei toni morbidi e pastellosi, senza neri, senza bianchi, slavati. Scherzando, con un’amica li ho chiamati toni “da lavandaia“. Piacciono anche a me a volte, impressionano, sì, sono tenui e gradevoli alla vista, ma non fatevi abbindolare dai colori e dagli effetti nella scelta del vostro fotografo. Guardate il contenuto, la sostanza, il momento catturato… l’emozione e non le sfumature. Perché a chiedere una post di questo tipo, come vedete, si fa sempre in tempo!
Se siete qui, probabilmente non è il caso vostro, ma non si sa mai… Evitate di chiedere:
Desaturazioni parziali. Ovvero quelle cose tipo “lui a colori, lei in bianco e nero”; “tutto in bianco e nero e il bouquet a colori”; “solo le labbra rosse, il resto in bianco e nero”. Non vado oltre perché non ho sottomano le bustine per il vomito…
HDR. Quel tipo di effetto che, se fatto male (come nel 99% dei casi che si vedono in giro), sembra di osservare le brutte copie di quei quadretti in vendita per strada o nelle piazzette dei borghi storici, che stimo moltissimo, ma perché imitarli?
Vi prego, torniamo a parlare di fotografia!
Nello scattare il minimalismo, così come il pittorialismo, è richiesta la ricerca della perfezione.
Il colore ha il potere di valorizzare o penalizzare la leggibilità di una fotografia. A volte ne sposta l’attenzione dal contenuto all’estetica.
La scelta non è assolutamente da sottovalutare né da compiere a cuor leggero. Dovete essere convinti della vostra scelta e saperla giustificare.
Amo premiare la fotografia del vero: quella fotografia che racconta una storia. E’ una fotografia in cui la luce e il colore hanno un loro posto e un loro compito narrativo.